giovedì 25 luglio 2013

http://lastranacoppa.wordpress.com/2013/07/24/parole-di-pane-non-solo-parole/

Parole di Pane… non solo Parole


Si intitola Parole di Pane l’antologia edita da Farnesi Editore (Prato) in cui la passione per la cucina incontra l’amore per la scrittura e la lettura. Il volume riunisce i racconti protagonisti di un concorso ideato dalle scrittrici Emma Saponaro e Diana Sganappa.
Il filo conduttore della gara è stato il cibo. Gli autori hanno raccontato aneddoti, esperienze e fantasie legate al cibo, alle tradizioni antiche, alle varianti regionali. Il risultato è un compendio di sapori e odori, evocati o immaginati.
Gli ingredienti del progetto, impastati a dovere e con una eccellente lievitazione, hanno offerto una variopinta esposizione di stili di scrittura con sapori mutevoli come il pane.
L’Opera è stata presentata presso la Libreria Galleria delle Arti l’Universale, a Roma, lo scorso 30 giugno. I presenti, numerosi e arrivati da tutta Italia e dall’estero, sono stati coinvolti dalla magia artistica di poeti performer, pianisti, critici letterari, e lettori professionisti.
Gli autori e il pubblico sono usciti con qualcosa in più: un senso di totale condivisione e partecipazione al progetto.
Ma cosa c’è di speciale in Parole di Pane?
La scrittura viene messa al servizio della solidarietà. I proventi dell’Antologia saranno devoluti totalmente, dalle curatrici, all’Associazione Familiari e Sostenitori Sofferenti psichici della Tuscia (Afesopsit).
L’entusiasmo è stato contagioso e si prevede una grande partecipazione alla seconda edizione del Concorso Parole di Pane.
Le Parole di Pane non sono “parole vuote”
ma un libro per chi non ha voce
 Se vuoi acquistare il libro e solidarizzare con il progetto, puoi ordinarlo presso le maggiori librerie o online all’Ibs. Se invece desideri una copia con dedica delle curatrici, scrivi aparoledipane@libero.it. Dietro pagamento paypal ti verrà spedita la copia senza spese aggiuntive.
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Diana Sganappa, primo classificato Paolo Slavazza, Emma Saponaro
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Vito Ferrante, presidente dell'AFESOPSIT
Vito Ferrante, presidente dell’AFESOPSIT
Premi:
I    E Dio inventò il colesterolo, di Paolo Slavazza
II   ex equo Miracolo in Città, di Teresa Fiani
II   ex equo La polenta, di Lucio Freni
III  Rose a dicembre, di Sabrina S.
Premi speciali:
Simpatia e coinvolgimento: Come la conquistai, di Tiziano Nobile
Originalità e stile: Salami di ieri e di oggi, di Stefano Pisani
Messaggio sociale: Lo scienziato, di Giovanni Piazza

martedì 25 giugno 2013

Il giornale schizofrenico

Due notizione da prima pagina, senza dubbio. Alcuni guai giudiziari di Josefa Idem e di Berlusconi si assomigliano, almeno nella qualità. Nella quantità no. Troppo più grandi quelli di Berlusconi. In confronto, un transatlantico e una barchetta giocattolo. Eppure i giornali di proprietà di Berlusconi riescono a ribaltare le cose. Una barchetta giocattolo pesa più di un transatlantico, secondo loro. La Idem è una "furbetta arrogante", il loro padrone invece è vittima di un complotto.


sabato 1 giugno 2013

Il commendator Tafazzi, genio della delocalizzazione

Perché crolla il Pil? Perché chi ha inventato la produzione dall’altra parte del mondo, ma basso costo, non si è reso conto di avere levato un tassello importante del nostro sistema produttivo. Senza contare che ha riportato in vita lo schiavismo
  
La delocalizzazione è una genialata. Intanto perché è una parola bella, lunga, che sembra pure difficile. La dici e nessuno ti nega un “oh” di ammirazione. Ma se non usassimo l’antilingua che chiama “non vedente” un cieco ed “extracomunitario” un migrante, la delocalizzazione potrebbe avere due nomi diversi. Il primo è crudele: “schiavismo”. Il secondo è ridicolo: “tafazzismo”.
Cominciamo dal primo. Schiavismo. Una parola che sembra di altri tempi, ma il concetto che esprime è quello. Pagare due lire dei lavoratori stiparli in un sottoscala per venti ore al giorno è un’azione che non può essere definita con altre parole. Anche se gli schiavi sono lontani e dunque invisibili a occhio nudo, la sostanza non cambia. Però avere a disposizione degli esseri umani ridotti alla condizione di robot è comodo: niente lamentele, manodopera a prezzi stracciati, costo finale del prodotto molto competitivo. 
Non dovevano essere felicissimi, ad esempio, i lavoratori robot della FoxConn, che produce componenti per la Apple. Qualcuno di loro ha addirittura pensato che l’unica uscita da una situazione insostenibile fossero le finestre del settimo piano. Per questi voli disperati l’azienda si è guadagnata il soprannome di “fabbrica dei suicidi”.
La delocalizzazione porta con sé un altro effetto collaterale. Lo si potrebbe chiamare miopia, ma anche “tafazzismo”. Dunque, grosso modo tutti sappiamo chi sia Tafazzi. Un’invenzione felice di Aldo, Giovanni e Giacomo: era l’omino in calzamaglia che si dava bottigliate sulle parti molli, chissà perché. Il tafazzismo applicato all’industria è meno riconoscibile di una bottigliata in zona pubica, ma è altrettanto doloroso. Per capirlo, andiamo a fare visita alla fabbrica della Ford, nei primi anni Cinquanta. Il padrone (Henry Ford) vuole che gli operai lavorino molto e guadagnino poco; il sindacalista (Walter Reuther) vuole grosso modo l’esatto contrario. Intelligenza vorrebbe che si trovasse un buon punto di equilibrio: lavori il giusto, ti pago il giusto. La scena si svolge davanti a due macchinari robotizzati di ultimissima generazione, vanto della fabbrica. Il padrone sorride e dice al sindacalista: “Vai dai robot a chiedere le quote sindacali”. Il sindacalista sorride meno, indica i robot e risponde: “Vai da loro a vendere le tue macchine”. Cioè: caro padrone, se licenzi i tuoi operai perché vuoi che siano gli schiavi (o i robot) a produrre, chi comprerà i tuoi prodotti? Gli operai, da disoccupati, non avranno soldi da spendere. Senza un pezzo dell’apparato produttivo, l’intero sistema economico a poco a poco si sbriciolerà e noi continueremo a chiederci perché cala il Pil, perché la crisi non passa. Ci resterà solo la soddisfazione di avere degli schiavi a nostra disposizione, possibilmente dall’altra parte del mondo. Di solito esteticamente non rendono molto, gli schiavi.







martedì 19 marzo 2013


La rivoluzione dei dissidenti

Su chi possiamo contare perché le cose cambino e la storia non si ripeta? Chi rifiuta lo scontro frontale e segue la propria coscienza può dare un contributo davvero costruttivo. E rivoluzionario.

Viviamo tempi di rivoluzione, ormai è chiaro. Però tocca fare attenzione alle parole. Rivoluzione la ereditiamo dal latino revolvere: voltare, ritornare. Abbiamo finalmente la possibilità concreta di voltare pagina. A oltre a questa prospettiva, è chiara un'altra idea sottintesa all’etimo di rivoluzione, quella del ritorno. Ogni società cambiata da una rivoluzione è destinata a ritornare, lentamente, alle condizioni di prima, ma non senza sofferenze. Tra chi? Tra i potenti che si devono (giustamente) rovesciare? Ma no, ovvio. I potenti veri pagano il biglietto ridotto. Un paio di teste o tre, un signorotto ottuso e due Marie Antoniette che non sanno nemmeno la differenza tra pane e brioche. Il biglietto intero lo pagano quelli di sempre. Quelli che devono fornire il mobilio per le barricate e il sangue affinché i libri di storia del secolo successivo possano usare l’aggettivo “sanguinoso”. Dunque, il ritorno. La storia che ritorna. Prendiamo una rivoluzione qualsiasi: lasciamo prendere quelle più recenti, amarissime e inconcludenti, profumate di gelsomino, che pure rappresentano in pochi mesi quello che nelle rivoluzioni del passato avveniva nel giro di qualche anno. Soffermiamoci invece su quella francese, abbastanza lontana, abbastanza celebre.
1)      Si comincia con un sistema ingiusto e intollerabile.
2)      Va rovesciato, e il popolo lo fa.
3)      Prende quota un capo.
4)      Il capo decide la linea.
5)      Leva di mezzo tutti quelli che non la pensano esattamente come lui.
6)      Il regime di terrore che stabilisce diventa più odioso di quello rovesciato. Senza usare nomi recenti, questo passaggio ci ricorda qualcun altro, vero? Robespierre, Cromwell, Lenin, Mao.
Di questi tempi, arrivati come siamo al punto due e mezzo, ci possono salvare i dissidenti. Perché la rivoluzione è costruttiva proprio fino a quel momento beato, fino a prima che il capo diventi un nuovo sovrano assoluto. Al punto due e mezzo non deve essere dimenticata la democrazia. Deve prevalere il buon senso, che va deciso osservando gli eventi. Durante una rivoluzione, inoltre, gli eventi sono in convulso divenire: non puoi programmare prima cosa succederà. I dissidenti hanno permesso cose nuove, perché hanno partecipato al movimento rivoluzionario ma hanno scelto di evitare un inutile scontro frontale. Hanno rappresentato il popolo che li ha eletti, non un capo giunto al punto tre e mezzo. Non hanno smesso di pensare a dove fosse la soluzione migliore. Hanno dovuto scegliere, ma almeno hanno potuto determinare i termini della scelta. In futuro potranno far sì che la Sinistra sia meno autocompiaciuta e che la Destra si affranchi dal burlesque. Se continua così, i ribelli determineranno comportamenti saggi, e dunque eventi davvero rivoluzionari.

lunedì 17 dicembre 2012

Saudade

Mi sento triste.
Magari organizzando
un giro di prostituzione
internazionale...

giovedì 13 dicembre 2012

Eros e tanatoprassi

Ogni tanto è buona cosa andare a leggere Il Giornale.it. C'è sempre qualcosa da annotarsi, qualcosa che colpisce anche se non te ne accorgi subito. Ad esempio oggi mi ha incuriosito la parola del giorno.
Per chi non riesce a vincere l'avversione a cliccare su un link che punta verso l'innominabile, anticipo che la parola in questione è "tanatoprassi".
Saperla usare al momento buono fa fare bella figura in società. Apprendiamo dal quotidiano che "la parola serve talvolta a ironizzare su trucchi e ceroni, femminili e maschili, troppo pesanti o palesemente troppo correttivi".
Chissà se l'estensore della rubrica aveva in mente qualcuno in particolare. Se sì, chissà che cosa significa questa spericolata presa di posizione. Mah. 


sabato 30 giugno 2012

Emergenza caldo, allerta meteo Caronte


Lo sanno pure i portapenne: d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo. Si può dire, mica c’è la censura. Ma per legge dovrebbe essere possibile dirlo nei telegiornali solo una volta all’anno, preferibilmente all’inizio della stagione incriminata. Tipo: il quindici giugno tutti i tg possono aprire con la notizia della grande cappa di afa. Spareranno tranquillamente il titolone originalissimo "Emergenza caldo" e consiglieranno ai più riottosi di restarsene a casa nelle ore più calde: se andranno in giro con la testa scoperta, o senza aver mangiato frutta e verdura o aver assunto litri di liquidi, lo faranno a loro rischio e pericolo. Primo dicembre: ammazza che freddo fa. Diciamo pure che siamo in allerta meteo: questo titolo ci sta tutto. Non dormite sui balconi, copritevi e state al chiuso quanto più possibile. I liquidi fanno sempre bene, la frutta e la verdura pure. Quindi attrezzatevi per l’inverno e non rompete i coglioni. Poi, altri due argomenti a cui inviterei il pubblico a casa a pensare ardentemente quando ha bisogno di relax, solo pensare, perché nei tg non sarebbe il caso di vederli più:
a) negli zoo di tutto il mondo nascono centinaia di cuccioli di giraffa/cammello/tigre siberiana/panda/zebù/urogallo. E da piccoli sono estremamente capaci di suscitare tenerezza, soprattutto se la mamma, per una ragione qualsiasi (ad esempio se è: morta/scappata dallo zoo/ammalata di petecchie/rintronata dalla Bse) se ne fotte di loro e un inserviente dello zoo li deve nutrire col biberon.
b) le donne sono belle. Hanno un corpo armonioso, dovizioso di curve. Avete presente culi e tette? Ecco, cercatevele dal vivo, fatevi gli incontri ravvicinati del quarto tipo, perché vederle in un tg non fa bene al cuore. Le vorresti acchiappare, ma quando ti avvicini tocchi solo uno schermo sordo e grigio. L’effetto finale è che ti senti un Tantalo più stupido dell’originale. Quando un tg dà spazio al compleanno del tanga, chiediti a cosa sta togliendo spazio; perché, come sanno bene gli automobilisti che tamponano più spesso, il culo distrae. Chiediti anche chi vuole che tu ti distragga e da cosa.
E i casi di cronaca nera? Vanno raccontati in tre minuti al massimo, senza immagini truculente, anzi, senza immagini tout court. Via i nastri bianchi e rossi che circondano cadaveri ancora zampillanti. L’approfondimento potrà durare al massimo quaranta secondi. Il posto previsto nel palinsesto è la fascia che va dalle quattro alle quattro e zerocinque antimeridiane. Chi vuole sentirli, metta la sveglia e inzuppi pure il biscottino della prima colazione nelle tracce biologiche rinvenute col luminol.
Infine, per tutto il resto delle informazioni secondarie che passano in un tg, come la politica, la direttiva è questa: se non avete un buon equilibrio mentale, cari operatori del settore, ricordatevi almeno di avere una faccia. Ricordate a che cosa serve il vostro mestiere. Se non ci riuscite, ricordate che quando si esaspera, la gente tira le monetine. No, le banconote no.

venerdì 15 giugno 2012

Chi era costui?

Foto tratta da nomfum.wordpress.com 
Un sacco di tempo, ci ho messo un sacco di tempo a ricordarmi il nome. Avevo ben presente il sorriso largo, quasi sempre sfoderato a sproposito. Un accenno di riporto, forse, o comunque una pettinatura indecente. Però il nome non voleva tornare a galla. Mi era tornato in mente, questo tizio, per via di quell'episodio avvenuto all'inizio della decadenza. Di quando, cioè, aveva pagato un po' di poveracci perché stazionassero a Piazza San Silvestro sventolando striscioni inneggianti al suo nome. Già, proprio il nome che mi sfuggiva. Non è che mi dispiacesse: anzi pensavo che quel ricordo mancato fosse un sintomo evidente della disintossicazione in corso. Come avevo dimenticato quel nome, con un po' di tempo, avrei potuto dimenticare anche tutti gli altri. Dell'omino in questione ricordavo molti altri particolari: il disinvolto salto della quaglia verso Berlusconi, la corsa a perdifiato per arrivare in tempo al suo scranno alla Camera e votare per il nuovo padrone, le liti furiose in tv, inscenate senza motivi apparenti. Ah, i sosia mandati alle presentazioni dei libri al posto suo. Ah, faceva l'agopuntore. Ah, Scilipoti. Già, Scilipoti. Pazienza, me ne dimenticherò la prossima volta.