venerdì 28 ottobre 2011

Sgarbi e la capra parlante


Ma porca puttana infame, sarebbe stato l’esercizio più facile di questo mondo mettere a tacere quella cozza ributtante. E che ci voleva? Una piccola accelerazione di retorica, fatta per mestiere, se proprio la convinzione intima – questo lo aveva capito da un po’ – non lo confortava più. Ma il mestiere, miseria vacca, quello non glielo doveva levare nessuno. Il programma mattutino della rete ammiraglia della tv di Stato, vabbe’, pochi milioni di telespettatori assonnati, per lo più casalinghe che cominciavano a ciabattare in giro per la cucina a rassettare i rimasugli di vita quotidiana. Ma proprio loro lo adoravano. Perché era il più grande polemista della televisione italiana, perché era coltissimo e capace di vincere ogni scontro dialettico, pure con i maestri del dibattito, se altri maestri del dibattito potevano esistere a parte lui.
Aveva dato un contributo determinante persino a ribaltare le sorti della Storia. Quando vent’anni prima tutto sembrava puntare velocemente e inevitabilmente verso una direzione, ecco, lui aveva convinto il Paese a pensare l’esatto contrario. Eppure era il momento in cui un triumviro del Caf veniva schiaffeggiato da un primissimo piano mentre agli angoli della bocca lo stress gli montava a neve la bava. Era il momento delle monetine violente, dei giudici acclamati, del tutti dentro; era la fine di un’era. Il suo compito era impossibile, ma lui aveva scompigliato i pettinati e pettinato gli scarmigliati. Aveva affermato l’antitesi di una tesi che sembrava irrefutabile. Il tutto con la potenza irrefrenabile della sua parola, della sua colta facondia, capace di infiammarsi e di infiammare.
Oh quanti ne aveva fatti tacere e arrossire, interlocutori di gran lunga più preparati di quella cozza deforme con gli occhiali spessi che gli aveva detto una parolina sola. E ora lui si era arreso, non aveva replicato. Il monitor gli aveva rimandato un primo piano infiacchito, vuoto, vinto. Mai un altro monitor gli aveva restituito un’immagine così patetica di sé. Quanti monitor avevano brillato riflettendo il suo volto, contenendo a stento la sua mimica disinvolta, la sua chioma ribelle riportata in riga con un gesto deciso e maschile che proprio quelle casalinghe trascurate e sonnolente faceva rimanere estasiate davanti al piccolo schermo. Lui il più grande, il migliore, l’imbattibile. Che quando proprio si sentiva in difficoltà – capitava di rado, anzi, quasi mai – e voleva sei secondi per riorganizzare l’architettura di un nuovo discorso, ripeteva ossessivamente una parola, un insulto, un distrattore qualsiasi, giusto per impedire all’interlocutore-avversario di organizzare il suo, di discorso, o semplicemente per eclissare al pubblico il ragionamento nemico.
Certamente la stanchezza. A quell’ora ragionare bene è impossibile. Lui era un tipo nightingale, non certo un grigiobanale tipo lark. Rendeva al massimo a sera inoltrata, pure a notte fonda. Cazzo quante notti di studio, quante volte aveva ingannato l’orologio biologico che gli avrebbe chiesto un placido pigiama a righe. Non solo per lo studio: poi erano arrivate le feste, le serate in giro per l’Italia e per il mondo, donne a volontà, sempre le più belle, sempre da accompagnare in giro e mostrarle come trofei. Lui, il migliore, l’instancabile e infaticabile coltissimo conquistatore e affabulatore del mondo.
Stanchezza, sì. Un momento di pausa ci vuole per tutti. Ma quella cozza insulsa che non scopava dal Sessantotto meritava di essere subissata di insulti per il semplice fatto che affastellava davanti alla telecamera concetti inaccettabili, arretrati e veterocomunisti. Porca puttana mille volte.
Via, lontano da tutto e da tutti. Per un po’. Ma non per smaltire la brutta figura, quella sarebbe stata dimenticata già l’indomani. Anzi, il suo silenzio davanti alla quattrocchi sfigata poteva essere interpretato come un atto di superiorità. Via, a riposarsi un po’. Magari qualche pagina di quelle buone – un vecchio libro suo, giusto un ripasso whitmaniano, un canto del sé – per toccare terra e riprendere forza. Proprio per toccare letteralmente terra aveva deciso di allontanarsi da Saxa Rubra a piedi. C’è qualche metro di campagna, lì intorno. Pensò che poteva tornare comodo vederne un po’. Si ritrovò a camminare verso la stazione ferroviaria e si ritrovò al binario che porta verso il centro, da solo.
Il treno non arrivava mai. Chissà, un guasto, uno sciopero, la lentezza proverbiale dei servizi pubblici di questo Paese. Peccato che la stazione fosse deserta, era un momento in cui gli avrebbe fatto piacere sentirsi riconosciuto. Sentire il pensiero dietro agli occhi che indugiavano su di lui. Sentire che dicevano, o pensavano: «è il più grande, nessuno gli tiene testa eppure guarda, prende il treno». Nessun rumore, neanche di passi che rimbombavano metallici sul ponte pedonale che collega la stazione di Saxa Rubra al Centro Rai.
Sentì un grattare di terra, a un certo punto, dietro di lui. Esattamente sotto il montante del ponte, in un angolo di terreno devastato da palline di feci ovine. Una capretta stava adagiata lì. Forse era malata, forse era disperata perché si era smarrita – pensò proprio questo termine, smarrita – dal resto del gregge. Gli occhi dell’animale (quelle pupille dalla forma strana, a fessura orizzontale e allungata) erano puntati su di lui. Lo salutò con un belato, e lui non poté fare a meno di collegare quella situazione inconsueta a una bella poesia di Umberto Saba che ricordava a memoria.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia…


«Bee», rispose l’uomo, per celia.
«Bee», aggiunse la capra solitaria.
Silenzio.
«Conosco anch’io la poesia di Umberto Saba, sono contenta che tu ci abbia pensato».
Finalmente qualcuno, pensò l’uomo, forse ho declamato la poesia a voce alta. Si girò. Marciapiede vuoto a sinistra. Anche a destra. Nella banchina di fronte, ma più giù, a una trentina di metri di distanza, era arrivata una donna straniera, con un vestito molto colorato.
«Sono io, eccomi qui», riprese la voce. Sembrava stridula, di testa, un po’ tremante. Rosa Russo Jervolino con il raffreddore. L’uomo guardò dietro al pilone del ponte, oltre la capra. Inutile cercare spiegazioni razionali, aveva parlato lei. L’uomo pensò ancora una volta di essere stanco, poi si rassegnò ad incamerare un nuovo concetto: a due passi da una scultura che ritrae un cavallo d’oro che vola, le capre possono parlare.
«Ti conosco, ti ho sempre seguito con attenzione. Anzi, con ammirazione», continuò la capra. «Ti ammiro tanto che ti ho perdonato pure qualche epiteto politicamente scorretto ripetuto con troppa leggerezza, sono sicura che oggi non lo diresti più».
«Vero, scusami, oggi non lo direi più. Ma tu come stai? Ti sei persa, sei ferita?».
«No, sto bene, ti aspettavo. Non chiedermi come facevo a sapere che saresti venuto qui, non lo so. Però lo sapevo e mi sono nascosta qui. So anche che ti girano le palle e ti senti stanco. So anche che non hai saputo ribattere a una persona, in studio».
«Mi hai visto in televisione?»
«Sì, bravo, ora le capre pagano il canone. No, sei fuori allenamento. Lo so, ma non so spiegarti come mai lo so. Lo sento, ecco».
«Senti tutto o soltanto quello che capita a me?»
«Sento molto, te in particolare. Sento anche cosa ci vorrebbe per rimetterti in sesto».
Silenzio.
«Meee. Ti ci vuole me. Ti posso aiutare, perché qualcosa non ti torna e hai perso lo slancio. Ti ricordi una vignetta di vent’anni fa? Si chiedevano se tu avessi cambiato l’odio al motore. Non l’hai cambiato e ti sei esaurito. Grippato».
Silenzio.
«Ti sei inaridito, non ci credi più. Troppe cose non te le spieghi e non hai più voglia di agire a marionetta per giustificare gli altri».
«Ma come ti permetti? Ho intatto il mio sistema di valori, radicati e sicuri, io».
«Allora non ti servo».
Silenzio.
«Che faresti per me?»
«Ti scriverei le tracce degli interventi in tv e ai convegni, i copioni, i dialoghi. I libri, gli articoli. Secondo la tua vera essenza, che io sento bene e tu no. Torneresti grande».
«Sì, una capra il mio ghost writer».
«Preferisco goat writer. Mi suona più familiare».
L’uomo e la capra andarono via insieme, verso il centro, lungo il bordo della via consolare. Traffico feroce a sinistra, erbetta buona a destra. Ogni tanto qualcuno si fermava a guardare, ma sulle consolari non ti puoi fermare a lungo, per fortuna.
L’uomo tornò grande.

venerdì 21 ottobre 2011

La gloria del mondo


Nel giorno culmine della macelleria libica non riesco a levarmi dalla mente poche parole, sentite per caso durante il servizio del telegiornale regionale. Una storia che viene da Roma, non da Sirte. L'uomo travolto dall'acqua. "Ha salutato la moglie", lo ha riferito il ragazzo che ha tentato di salvarlo e non c'è riuscito. Ha salutato la moglie. Ha salutato la moglie. Sic transit gloria mundi, ammonisce Berlusconi, ma certe glorie del mondo non passano.


La foto viene da qui: http://www.flickr.com/photos/tofom/page56/

domenica 16 ottobre 2011

Perché?


Non mi basta la definizione di Wikipedia sui black bloc. Ho l'impressione che ci sia altro; questa violenza ingiustificata non porterebbe da nessuna parte, se no. Stavolta mi piace giocare al complottista. A chi interessa che una manifestazione non riesca? A chi la pensa in modo opposto a chi manifesta. Ammesso che la pensi in qualche modo. E chi la pensa in modo opposto a chi vuole lavoro, diritti, futuro? Ecco, appunto.

lunedì 10 ottobre 2011

Sarebbe bello incazzarsi


Ma tanto, proprio tanto. Avere le idee chiare, la mente lucida, le mani determinate. Cambiare le cose, fare la propria parte per evitare di sentirsi perduto.
Ora, proprio adesso, fare qualsiasi cosa. Proprio ora che è autunno. Ogni anno di questi tempi ho la sensazione che mi dovrei sbrigare, chissà perché.