domenica 4 marzo 2012

Senza paura di morire


La prima canzone vera che ho sentito nella mia vita è “Ma come fanno i marinai”. La radio era arancione, mangiadischi incorporato, regalo della prima comunione. Stazioni soltanto in Am, con i relativi nomi sul frontalino. Nomi come Lilla, Monte Ceneri, Berom, Milano, Napoli. Sì, prima avevo sentito altre canzoni, ovvio. Quelle che passavano nei programmi del sabato sera degli anni Settanta. Era roba familiare, dimenticabile e dimenticata. Poi c’erano quelle che mi arrivavano dalla finestra quando giocavo nel cortile di nonna: “Ti prego amore aspettami (oh-oh-oh-oh)”, il moog del Guardiano del Faro, il falsetto dei Cugini di campagna e un incipiente Pupo.
La prima canzone vera che ho sentito nella mia vita è “Ma come fanno i marinai”. Ero solo, giocavo con le stazioni della radio, l’ho incrociata con la barretta rossa sulla “l” di Napoli e l’ho scelta. Non ricordo cosa ho pensato, ma ricordo che mi sono fermato a pensare a quelle voci poco impostate, un po’ sporche, a quelle parole poco consone al mondo che allora poteva entrare in una canzone.
Poco tempo dopo, girando in macchina con zio Benedetto, ho ascoltato “Al parco della luna”. A un ragazzino, se gli dici “guardando le stelle ho chiesto di capire come entrare nel mondo dei grandi senza paura di morire”, gli levi di bocca le parole che ancora non sa pronunciare.
E poi Futura, Anna e Marco, La sera dei miracoli, Meri Luis. Scoperte prima alla radio, poi registrate a fatica, poi ascoltate e imparate a memoria, insieme agli accordi. E poi i pomeriggi passati a cantare quelle canzoni insieme a Enzo e al gruppetto degli amici veri. E poi i giri in macchina, con l’autoradio estraibile che non smetteva mai di sfornare le canzoni di Lucio Dalla. Tutte. Enzo scovava quelle del periodo Roversi, quelle ancora precedenti. Cassette mandate a memoria, parole che prendevano il posto di quelle che non sapevamo ancora dire. Musica installata a viva forza nella memoria. Ancora oggi, quando finisce una canzone di Lucio Dalla, aspetto che inizi quella che la seguiva nella cassetta che ascoltavamo. Saprei ricostruire l’ordine meticolosamente, senza sbagliare un passaggio. Poi le cose cambiano, porca miseria. Dal 1988 in poi il gruppetto degli amici si è sparpagliato per l’Italia. Anche Lucio Dalla ha cercato strade nuove, è cambiato, ha esplorato. E noi, che non ascoltavamo più la radio nelle nostre camerette da ragazzini e non ci stipavamo in otto su una Cinquecento ad ascoltare “Quanta brillantina e coraggio mi mettevo”, lo abbiamo perso di vista, Lucio. L’ho ritrovato nel 1999, dal vivo, a Via Asiago, per un’intervista. Ero felice, rappresentavo tutto il gruppetto degli amici. Mi ha chiesto di dargli del tu, mi ha offerto mezza scatola delle sue liquirizie di Rossano. Avevo in tasca la cassetta, pensavo di fargli fare l’autografo proprio lì, dopo avergli raccontato le nostre storie. Ma poi ho pensato che la cassetta era autoprodotta e mi sono vergognato un po’. Niente autografo, pazienza. So che Lucio non potremo più perderlo di vista.