sabato 10 dicembre 2011

Quando il gioco si fa duro

Capita, nei momenti in cui il presente è (o sembra) insignificante, di cercare da un'altra parte. Per il futuro non ho il fisico, allora mi giro all'indietro, rischiando di diventare statua di sale, o di arare producendo solchi inutilizzabili.
Ho recuperato una serie di appunti scritti una decina di anni fa: non volevo perdere la memoria di aromi che non mi facevano perdere la memoria. Oggi li ricopio, nella memoria immortale della rete.

- L'odore del cartone bruciacchiato, che mi porta al 1981. Avevo costruito il proiettore per diapositive, con una scatola di biscotti, una lampadina e un lente d'ingrandimento.

- La Coccoina (è un classico). Ai tempi in cui con Nina facevamo la raccolta delle figurine del Risorgimento. 1974-5?

- L'odore della salvietta di stoffa che avvolgeva il panino, alla scuola materna e alle elementari. E' un odore che esiste tuttora, ristagna nelle classi dopo la ricreazione, se lo portano addosso i bambini appena usciti da scuola.

- La vernice per i prospetti delle case.

- Il compensato leggero con cui era costruito il fortino, regalo di zio Benedetto.

- Il legno, la juta, tutta la somma dei materiali con cui era costruita la sede degli scout.

- Il fumo di sigaretta misto all'odore di apparecchi elettronici. Era nel salottino, nei corridoi, nello studio di Radio Stereo Belice, radio privata degli anni Settanta.

- Il sugo con la cipolla che preparavano in via XX Settembre, quando andavo all'asilo. Davano la pasta in una tazza di plastica col manico. Mai mangiata.

- Per far lievitare meglio la pasta della pizza la mamma e la zia Anna la mettevano in un recipiente, che avvolgevano con delle coperte. L'odore che filtrava da lì.

- L'odore metallico degli autoscontri.

- L'ancia del clarinetto, il suo sapore.

- L'odore del mandarino e del muschio sulle dita. A sedici anni, raccoglievamo il muschio per il presepe da preparare a San Giuseppe.

- Il profumo del dopobarba, mescolato a quelli della crema al mentolo e alla canfora che si trova davanti ai negozi di barbiere. L'infanzia-adolescenza, al salone di papà.

- Il profumo della casa di zia Nenè. Sono convinto che ogni casa, ogni famiglia abbia il proprio profumo. Anche dalla nonna, nel camerino, c'era un odore particolare, composto da frutta, buio, muri antichi, farina, olio. Qualcosa di simile viene fuori dalle case antiche di Roma. A volte, camminando, da una finestra aperta al pianterreno ti arriva un'ondata di frescura che ha questo profumo. L'ho sentito nelle scale di un palazzo di via Rasella.

- Il profumo della sala dell'Immacolata, a Carnevale. Era composto da respiri, schiuma da barba, profumi a buon mercato, vita. Denso come vapore, si incollava agli occhiali e ai corpi.

- Il profumo di Rosalba che mi rimaneva sulle dita dopo che ci eravamo incontrati.

lunedì 5 dicembre 2011

Siamo seri

Un commento che non è stato rilanciato dai media, quello della senatrice Albertina Soliani. Un commento di poche parole, buttato lì per caso durante un convegno che si è svolto il 30 novembre, ma capace di rendere l'idea di come siano cambiate le cose in Parlamento. "E' un bel vedere - ha raccontato la senatrice - un gruppo di persone serie ed essenziali sedute nei banchi del Governo". Chiaro, i predecessori non lo erano, seri ed essenziali. Le telecamere rivelavano smorfie, intemperanze, distrazioni con giornali, telefonini e iPad. Sonnolenze, sghignazzi, gestacci, parole al limite del codice. I ministri nuovi sembrano invece piovuti lì da un altro tempo. Sono educati, ascoltano, partecipano, si commuovono. Di uno così ti fidi, anche se ti chiede soldi. Mi dispiace per quelli nati nel '52. Spero che si consolino pensando che in pensione ci andranno. Altri, nati vent'anni dopo, se la passeranno peggio. Ma almeno non vedranno incongruenze, tra le persone sedute nei banchi del Governo.

domenica 4 dicembre 2011

Con quella bocca può dire ciò che vuole?

Calderoli: "Facciamo come in Cecoslovacchia". E poi: "Maroni farà il culo a Monti". Non mi mancava affatto, non mi serviva il richiamo di questo vaccino che non serve a niente. Chissà quante altre fesserie che ha detto non sono state trascritte. E chissà quante di queste fesserie sarebbero anche reato.

lunedì 7 novembre 2011

Silvio un eroe shakespeariano?


C’è qualcosa di già sentito nelle cronache di questi tempi in cui l’impero di Silvio si sgretola. Sono notizie già incontrate da qualche parte, probabilmente nelle cronache shakespeariane. Sono immagini che tornano alla mente per contrasto, per lo più. L’unica cosa che hanno in comune Macbeth, Antonio o Riccardo III con Berlusconi è la caduta rovinosa. Non condividono altro. Neanche l’ombra della grandezza, della nobiltà. Non c’è nulla di grande nel seguace Storace che vuole fucilare alla schiena i traditori. Non c’è nulla di grande in Berlusconi che vuole la fiducia per guardare in faccia i traditori (che non lo votano benché lui li abbia ricompensati adeguatamente). Antonio non lo avrebbe fatto. Lui faceva recapitare i tesori di Enobarbo al campo rivale, dopo il tradimento. Ed Enobarbo, ferito da una sorte avversa, si lasciava morire, colpito e affondato dalla statura di un uomo grande anche negli errori, di un Antonio che sembrava un gigante e le isole dei mari sembravano monete cadute dalle sue tasche.
Il Silvio non ha nulla in comune con i titani che rovinavano a terra, chiedevano cavalli e in cambio offrivano regni.
Antonio, per quanto antipatico (nessuno si deve permettere di dire “let Rome in Tiber melt”), per quanto lontano dal senso del dovere (in questo è come Silvio, che fa il premier a tempo perso), alla fine guadagna la simpatia dello spettatore perché la sua distrazione ha basi nobili. Si è innamorato: capita. E di Cleopatra, che non è certo la bisnonna di Mubarak né una sciacquetta qualsiasi come Ruby o Noemi.
Non riusciamo invece a sentire la stessa simpatia per Silvio, che non ama una regina ma un insieme composito di donne, che impastate tutte insieme non hanno la grandezza della regina d’Egitto.
A proposito, chi è il Domizio Enobarbo di Silvio? Confalonieri, forse. O Letta. O Bondi. O la somma di tutti loro. O una donna, visto il personaggio. Che so, la Carlucci. Piangerà per la generosità di Silvio, che non potrà più sperimentare? Cercherà l’estremo oblio in una buca del terreno, invocando “the poisonous damp of night”?
Nel suo castello, Silvio intanto osserva i movimenti delle truppe nemiche, come un Macbeth in trentaduesimo. Osserverà quali foreste si muovono in Parlamento, guarderà in faccia i “non nati da donna”. Questi ultimi avranno la faccia tosta di abbandonare il capo? Pensiamo di sì, anche questa dote abbonda ad Arcore, l’esempio del capo si può seguire.
Intanto l’ultima intercettazione assicura che “il testa di cazzo si dimetterà domani”. L’ultimo atto viene recitato con le frasi rubate, proprio nel modo in cui la farsa era iniziata.

The poisonous damp of night


Non c'è nulla delle vette tragiche shakespeariane, in quello che sta capitando in Italia. Gli amici più stretti del capo, anche gli Enobarbo più fidati, stanno abbandonando un Berlusconi che non assomiglia per niente ad Antonio.
Abbiamo anche qui la velenosa umidità della notte, capace di uccidere, ma non gli Enobarbo nostrani. No, quelli cambieranno casacca e vivranno a lungo.
Mi va di sbilanciarmi in una previsione, stamattina. Eccola: domani il governo troverà la sua death by water, il naufragio definitivo. E le borse si impenneranno.

sabato 5 novembre 2011

New Economy


Si affermerà, prima o poi, una nuova economia. Magari è già nascosta da qualche parte l'idea che si svilupperà e finirà per cambiare l'ordine del mondo. Così come c'era l'idea di internet, cinquant'anni fa, rinchiusa nei cassetti del MIT. O come c'era l'idea dell'aereo, nascosta in mezzo alle ferraglie nel garage dei Wright.
Un economista, un ragioniere, o un contadino stanno maturando l'idea che diventerà irrinunciabile. Semplice, sicuramente sarà semplice e tutti si chiederanno "ma com'è che non ci ho pensato io". Eppure questa idea si affermerà anche contro la volontà di governi e banche d'affari. Segnerà la fine di concetti oggi inevitabili. Investimenti, affari, speculazioni, Pil, crescita, globalizzazione, delocalizzazione. Svaniti, tutti.
Cambierà il campo magnetico della terra: il sud sarà meno sud, il nord meno nord.

venerdì 28 ottobre 2011

Sgarbi e la capra parlante


Ma porca puttana infame, sarebbe stato l’esercizio più facile di questo mondo mettere a tacere quella cozza ributtante. E che ci voleva? Una piccola accelerazione di retorica, fatta per mestiere, se proprio la convinzione intima – questo lo aveva capito da un po’ – non lo confortava più. Ma il mestiere, miseria vacca, quello non glielo doveva levare nessuno. Il programma mattutino della rete ammiraglia della tv di Stato, vabbe’, pochi milioni di telespettatori assonnati, per lo più casalinghe che cominciavano a ciabattare in giro per la cucina a rassettare i rimasugli di vita quotidiana. Ma proprio loro lo adoravano. Perché era il più grande polemista della televisione italiana, perché era coltissimo e capace di vincere ogni scontro dialettico, pure con i maestri del dibattito, se altri maestri del dibattito potevano esistere a parte lui.
Aveva dato un contributo determinante persino a ribaltare le sorti della Storia. Quando vent’anni prima tutto sembrava puntare velocemente e inevitabilmente verso una direzione, ecco, lui aveva convinto il Paese a pensare l’esatto contrario. Eppure era il momento in cui un triumviro del Caf veniva schiaffeggiato da un primissimo piano mentre agli angoli della bocca lo stress gli montava a neve la bava. Era il momento delle monetine violente, dei giudici acclamati, del tutti dentro; era la fine di un’era. Il suo compito era impossibile, ma lui aveva scompigliato i pettinati e pettinato gli scarmigliati. Aveva affermato l’antitesi di una tesi che sembrava irrefutabile. Il tutto con la potenza irrefrenabile della sua parola, della sua colta facondia, capace di infiammarsi e di infiammare.
Oh quanti ne aveva fatti tacere e arrossire, interlocutori di gran lunga più preparati di quella cozza deforme con gli occhiali spessi che gli aveva detto una parolina sola. E ora lui si era arreso, non aveva replicato. Il monitor gli aveva rimandato un primo piano infiacchito, vuoto, vinto. Mai un altro monitor gli aveva restituito un’immagine così patetica di sé. Quanti monitor avevano brillato riflettendo il suo volto, contenendo a stento la sua mimica disinvolta, la sua chioma ribelle riportata in riga con un gesto deciso e maschile che proprio quelle casalinghe trascurate e sonnolente faceva rimanere estasiate davanti al piccolo schermo. Lui il più grande, il migliore, l’imbattibile. Che quando proprio si sentiva in difficoltà – capitava di rado, anzi, quasi mai – e voleva sei secondi per riorganizzare l’architettura di un nuovo discorso, ripeteva ossessivamente una parola, un insulto, un distrattore qualsiasi, giusto per impedire all’interlocutore-avversario di organizzare il suo, di discorso, o semplicemente per eclissare al pubblico il ragionamento nemico.
Certamente la stanchezza. A quell’ora ragionare bene è impossibile. Lui era un tipo nightingale, non certo un grigiobanale tipo lark. Rendeva al massimo a sera inoltrata, pure a notte fonda. Cazzo quante notti di studio, quante volte aveva ingannato l’orologio biologico che gli avrebbe chiesto un placido pigiama a righe. Non solo per lo studio: poi erano arrivate le feste, le serate in giro per l’Italia e per il mondo, donne a volontà, sempre le più belle, sempre da accompagnare in giro e mostrarle come trofei. Lui, il migliore, l’instancabile e infaticabile coltissimo conquistatore e affabulatore del mondo.
Stanchezza, sì. Un momento di pausa ci vuole per tutti. Ma quella cozza insulsa che non scopava dal Sessantotto meritava di essere subissata di insulti per il semplice fatto che affastellava davanti alla telecamera concetti inaccettabili, arretrati e veterocomunisti. Porca puttana mille volte.
Via, lontano da tutto e da tutti. Per un po’. Ma non per smaltire la brutta figura, quella sarebbe stata dimenticata già l’indomani. Anzi, il suo silenzio davanti alla quattrocchi sfigata poteva essere interpretato come un atto di superiorità. Via, a riposarsi un po’. Magari qualche pagina di quelle buone – un vecchio libro suo, giusto un ripasso whitmaniano, un canto del sé – per toccare terra e riprendere forza. Proprio per toccare letteralmente terra aveva deciso di allontanarsi da Saxa Rubra a piedi. C’è qualche metro di campagna, lì intorno. Pensò che poteva tornare comodo vederne un po’. Si ritrovò a camminare verso la stazione ferroviaria e si ritrovò al binario che porta verso il centro, da solo.
Il treno non arrivava mai. Chissà, un guasto, uno sciopero, la lentezza proverbiale dei servizi pubblici di questo Paese. Peccato che la stazione fosse deserta, era un momento in cui gli avrebbe fatto piacere sentirsi riconosciuto. Sentire il pensiero dietro agli occhi che indugiavano su di lui. Sentire che dicevano, o pensavano: «è il più grande, nessuno gli tiene testa eppure guarda, prende il treno». Nessun rumore, neanche di passi che rimbombavano metallici sul ponte pedonale che collega la stazione di Saxa Rubra al Centro Rai.
Sentì un grattare di terra, a un certo punto, dietro di lui. Esattamente sotto il montante del ponte, in un angolo di terreno devastato da palline di feci ovine. Una capretta stava adagiata lì. Forse era malata, forse era disperata perché si era smarrita – pensò proprio questo termine, smarrita – dal resto del gregge. Gli occhi dell’animale (quelle pupille dalla forma strana, a fessura orizzontale e allungata) erano puntati su di lui. Lo salutò con un belato, e lui non poté fare a meno di collegare quella situazione inconsueta a una bella poesia di Umberto Saba che ricordava a memoria.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia…


«Bee», rispose l’uomo, per celia.
«Bee», aggiunse la capra solitaria.
Silenzio.
«Conosco anch’io la poesia di Umberto Saba, sono contenta che tu ci abbia pensato».
Finalmente qualcuno, pensò l’uomo, forse ho declamato la poesia a voce alta. Si girò. Marciapiede vuoto a sinistra. Anche a destra. Nella banchina di fronte, ma più giù, a una trentina di metri di distanza, era arrivata una donna straniera, con un vestito molto colorato.
«Sono io, eccomi qui», riprese la voce. Sembrava stridula, di testa, un po’ tremante. Rosa Russo Jervolino con il raffreddore. L’uomo guardò dietro al pilone del ponte, oltre la capra. Inutile cercare spiegazioni razionali, aveva parlato lei. L’uomo pensò ancora una volta di essere stanco, poi si rassegnò ad incamerare un nuovo concetto: a due passi da una scultura che ritrae un cavallo d’oro che vola, le capre possono parlare.
«Ti conosco, ti ho sempre seguito con attenzione. Anzi, con ammirazione», continuò la capra. «Ti ammiro tanto che ti ho perdonato pure qualche epiteto politicamente scorretto ripetuto con troppa leggerezza, sono sicura che oggi non lo diresti più».
«Vero, scusami, oggi non lo direi più. Ma tu come stai? Ti sei persa, sei ferita?».
«No, sto bene, ti aspettavo. Non chiedermi come facevo a sapere che saresti venuto qui, non lo so. Però lo sapevo e mi sono nascosta qui. So anche che ti girano le palle e ti senti stanco. So anche che non hai saputo ribattere a una persona, in studio».
«Mi hai visto in televisione?»
«Sì, bravo, ora le capre pagano il canone. No, sei fuori allenamento. Lo so, ma non so spiegarti come mai lo so. Lo sento, ecco».
«Senti tutto o soltanto quello che capita a me?»
«Sento molto, te in particolare. Sento anche cosa ci vorrebbe per rimetterti in sesto».
Silenzio.
«Meee. Ti ci vuole me. Ti posso aiutare, perché qualcosa non ti torna e hai perso lo slancio. Ti ricordi una vignetta di vent’anni fa? Si chiedevano se tu avessi cambiato l’odio al motore. Non l’hai cambiato e ti sei esaurito. Grippato».
Silenzio.
«Ti sei inaridito, non ci credi più. Troppe cose non te le spieghi e non hai più voglia di agire a marionetta per giustificare gli altri».
«Ma come ti permetti? Ho intatto il mio sistema di valori, radicati e sicuri, io».
«Allora non ti servo».
Silenzio.
«Che faresti per me?»
«Ti scriverei le tracce degli interventi in tv e ai convegni, i copioni, i dialoghi. I libri, gli articoli. Secondo la tua vera essenza, che io sento bene e tu no. Torneresti grande».
«Sì, una capra il mio ghost writer».
«Preferisco goat writer. Mi suona più familiare».
L’uomo e la capra andarono via insieme, verso il centro, lungo il bordo della via consolare. Traffico feroce a sinistra, erbetta buona a destra. Ogni tanto qualcuno si fermava a guardare, ma sulle consolari non ti puoi fermare a lungo, per fortuna.
L’uomo tornò grande.

venerdì 21 ottobre 2011

La gloria del mondo


Nel giorno culmine della macelleria libica non riesco a levarmi dalla mente poche parole, sentite per caso durante il servizio del telegiornale regionale. Una storia che viene da Roma, non da Sirte. L'uomo travolto dall'acqua. "Ha salutato la moglie", lo ha riferito il ragazzo che ha tentato di salvarlo e non c'è riuscito. Ha salutato la moglie. Ha salutato la moglie. Sic transit gloria mundi, ammonisce Berlusconi, ma certe glorie del mondo non passano.


La foto viene da qui: http://www.flickr.com/photos/tofom/page56/

domenica 16 ottobre 2011

Perché?


Non mi basta la definizione di Wikipedia sui black bloc. Ho l'impressione che ci sia altro; questa violenza ingiustificata non porterebbe da nessuna parte, se no. Stavolta mi piace giocare al complottista. A chi interessa che una manifestazione non riesca? A chi la pensa in modo opposto a chi manifesta. Ammesso che la pensi in qualche modo. E chi la pensa in modo opposto a chi vuole lavoro, diritti, futuro? Ecco, appunto.

lunedì 10 ottobre 2011

Sarebbe bello incazzarsi


Ma tanto, proprio tanto. Avere le idee chiare, la mente lucida, le mani determinate. Cambiare le cose, fare la propria parte per evitare di sentirsi perduto.
Ora, proprio adesso, fare qualsiasi cosa. Proprio ora che è autunno. Ogni anno di questi tempi ho la sensazione che mi dovrei sbrigare, chissà perché.