sabato 1 giugno 2013

Il commendator Tafazzi, genio della delocalizzazione

Perché crolla il Pil? Perché chi ha inventato la produzione dall’altra parte del mondo, ma basso costo, non si è reso conto di avere levato un tassello importante del nostro sistema produttivo. Senza contare che ha riportato in vita lo schiavismo
  
La delocalizzazione è una genialata. Intanto perché è una parola bella, lunga, che sembra pure difficile. La dici e nessuno ti nega un “oh” di ammirazione. Ma se non usassimo l’antilingua che chiama “non vedente” un cieco ed “extracomunitario” un migrante, la delocalizzazione potrebbe avere due nomi diversi. Il primo è crudele: “schiavismo”. Il secondo è ridicolo: “tafazzismo”.
Cominciamo dal primo. Schiavismo. Una parola che sembra di altri tempi, ma il concetto che esprime è quello. Pagare due lire dei lavoratori stiparli in un sottoscala per venti ore al giorno è un’azione che non può essere definita con altre parole. Anche se gli schiavi sono lontani e dunque invisibili a occhio nudo, la sostanza non cambia. Però avere a disposizione degli esseri umani ridotti alla condizione di robot è comodo: niente lamentele, manodopera a prezzi stracciati, costo finale del prodotto molto competitivo. 
Non dovevano essere felicissimi, ad esempio, i lavoratori robot della FoxConn, che produce componenti per la Apple. Qualcuno di loro ha addirittura pensato che l’unica uscita da una situazione insostenibile fossero le finestre del settimo piano. Per questi voli disperati l’azienda si è guadagnata il soprannome di “fabbrica dei suicidi”.
La delocalizzazione porta con sé un altro effetto collaterale. Lo si potrebbe chiamare miopia, ma anche “tafazzismo”. Dunque, grosso modo tutti sappiamo chi sia Tafazzi. Un’invenzione felice di Aldo, Giovanni e Giacomo: era l’omino in calzamaglia che si dava bottigliate sulle parti molli, chissà perché. Il tafazzismo applicato all’industria è meno riconoscibile di una bottigliata in zona pubica, ma è altrettanto doloroso. Per capirlo, andiamo a fare visita alla fabbrica della Ford, nei primi anni Cinquanta. Il padrone (Henry Ford) vuole che gli operai lavorino molto e guadagnino poco; il sindacalista (Walter Reuther) vuole grosso modo l’esatto contrario. Intelligenza vorrebbe che si trovasse un buon punto di equilibrio: lavori il giusto, ti pago il giusto. La scena si svolge davanti a due macchinari robotizzati di ultimissima generazione, vanto della fabbrica. Il padrone sorride e dice al sindacalista: “Vai dai robot a chiedere le quote sindacali”. Il sindacalista sorride meno, indica i robot e risponde: “Vai da loro a vendere le tue macchine”. Cioè: caro padrone, se licenzi i tuoi operai perché vuoi che siano gli schiavi (o i robot) a produrre, chi comprerà i tuoi prodotti? Gli operai, da disoccupati, non avranno soldi da spendere. Senza un pezzo dell’apparato produttivo, l’intero sistema economico a poco a poco si sbriciolerà e noi continueremo a chiederci perché cala il Pil, perché la crisi non passa. Ci resterà solo la soddisfazione di avere degli schiavi a nostra disposizione, possibilmente dall’altra parte del mondo. Di solito esteticamente non rendono molto, gli schiavi.







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