Perché crolla il Pil? Perché chi ha
inventato la produzione dall’altra parte del mondo, ma basso costo, non si è
reso conto di avere levato un tassello importante del nostro sistema
produttivo. Senza contare che ha riportato in vita lo schiavismo
La delocalizzazione è una genialata. Intanto perché è una
parola bella, lunga, che sembra pure difficile. La dici e nessuno ti nega un
“oh” di ammirazione. Ma se non usassimo l’antilingua che chiama “non vedente”
un cieco ed “extracomunitario” un migrante, la delocalizzazione potrebbe avere
due nomi diversi. Il primo è crudele: “schiavismo”. Il secondo è ridicolo:
“tafazzismo”.
Cominciamo dal primo. Schiavismo. Una parola che sembra di
altri tempi, ma il concetto che esprime è quello. Pagare due lire dei
lavoratori stiparli in un sottoscala per venti ore al giorno è un’azione che non
può essere definita con altre parole. Anche se gli schiavi sono lontani e
dunque invisibili a occhio nudo, la sostanza non cambia. Però avere a
disposizione degli esseri umani ridotti alla condizione di robot è comodo:
niente lamentele, manodopera a prezzi stracciati, costo finale del prodotto
molto competitivo.
Non dovevano essere felicissimi, ad esempio, i lavoratori
robot della FoxConn, che produce componenti per la Apple. Qualcuno di loro ha
addirittura pensato che l’unica uscita da una situazione insostenibile fossero le
finestre del settimo piano. Per questi voli disperati l’azienda si è guadagnata
il soprannome di “fabbrica dei suicidi”.
La delocalizzazione porta con sé un altro effetto
collaterale. Lo si potrebbe chiamare miopia, ma anche “tafazzismo”. Dunque,
grosso modo tutti sappiamo chi sia Tafazzi. Un’invenzione felice di Aldo,
Giovanni e Giacomo: era l’omino in calzamaglia che si dava bottigliate sulle
parti molli, chissà perché. Il tafazzismo applicato all’industria è meno riconoscibile
di una bottigliata in zona pubica, ma è altrettanto doloroso. Per capirlo,
andiamo a fare visita alla fabbrica della Ford, nei primi anni Cinquanta. Il
padrone (Henry Ford) vuole che gli operai lavorino molto e guadagnino poco; il
sindacalista (Walter Reuther) vuole grosso modo l’esatto contrario.
Intelligenza vorrebbe che si trovasse un buon punto di equilibrio: lavori il
giusto, ti pago il giusto. La scena si svolge davanti a due macchinari
robotizzati di ultimissima generazione, vanto della fabbrica. Il padrone
sorride e dice al sindacalista: “Vai dai robot a chiedere le quote sindacali”.
Il sindacalista sorride meno, indica i robot e risponde: “Vai da loro a vendere
le tue macchine”. Cioè: caro padrone, se licenzi i tuoi operai perché vuoi che
siano gli schiavi (o i robot) a produrre, chi comprerà i tuoi prodotti? Gli
operai, da disoccupati, non avranno soldi da spendere. Senza un pezzo
dell’apparato produttivo, l’intero sistema economico a poco a poco si
sbriciolerà e noi continueremo a chiederci perché cala il Pil, perché la crisi
non passa. Ci resterà solo la soddisfazione di avere degli schiavi a nostra
disposizione, possibilmente dall’altra parte del mondo. Di solito esteticamente
non rendono molto, gli schiavi.
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